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Ho ricevuto per email questo articolo e lo pubblico volentieri.

La sfortuna di Taranto è quella di non avere avuto un disastro ambientale diretto, senza preavviso, impietosamente visibile da tutti come quello di Seveso, azienda Icmesa, metà anni Settanta: la diossina che improvvisamente fuoriesce in grande quantità dallo stabilimento e avvelena la verde Brianza, deturpa i volti dei bambini, uccide animali e piante; medici e scienziati che accorrono da tutto il mondo; donne che abortiscono; famiglie costrette ad abbandonare le abitazioni; uomini vestiti come astronauti che rimuovono carcasse di animali e terra contaminata sotto gli occhi delle telecamere.

A Taranto invece no. Tutto è andato avanti finora secondo una tragica normalità.

Un disastro ambientale all’italiana.

Ogni persona istituzionalmente responsabile, dal governo centrale al livello locale, sapeva perfettamente che dall’Ilva fuoriescono veleni letali per la salute delle persone e l’ambiente. Anche la gente del posto lo sapeva: mangiare, bere e respirare cadmio, cromo e polveri nel quartiere Tamburi porta ad avere almeno un ricoverato grave in ogni famiglia, bambini compresi. Perizie e indagini sanitarie hanno più volte ribadito che l’Ilva semina morte. Ma non è mai cambiato nulla. Nessuno ha mai fatto nulla per affrontare questa problema nell’unico modo possibile: interrompere la produzione e risanare. Mettersi in regola con le leggi e poi riprendere le attività compatibilmente con le norme vigenti. Investire una parte dei profitti (realizzati nel corso degli anni scaricando all'esterno i costi ambientali e sanitari dell'attività produttiva) per produrre in modo pulito e legale.

Lo hanno fatto in molti altri Paesi d’Europa. Perché a Taranto, Italia non è possibile?

A un certo punto interviene una giudice, la signora Anna Patrizia Todisco, il cui mestiere è fare rispettare la legge. Ci sono perizie, segnalazioni dei carabinieri, sentenze. La fabbrica viene sequestrata, come sarebbe avvenuto in qualunque Paese civile in situazione analoga.

Ma in Italia il problema diventa lei, la giudice. E si passa dalla tragedia alla farsa. All’italiana.

Il governo annuncia un ricorso alla Corte Costituzionale contro la decisione del giudice, mentre il ministro all’ambiente (?) Clini confessa a un giornalista: “Non farei mai crescere mio nipotino nel quartiere Tamburi di Taranto, e non ci prenderei mai casa”. Nichi Vendola se la prende con “l’ambientalismo fondamentalista”. Sulla prima pagina dell’Unità, l’ex senatore presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino compone una strepitosa ode alla magistratura degli anni Sessanta che, a differenza di quanto accade oggi a Taranto, “nell’applicazione della legge, riteneva che l’interesse generale dovesse prevalere”. E’ vero, lo ricordo bene: a quei tempi la mafia non esisteva, non esistevano tangenti, non esisteva inquinamento, e la bomba in piazza Fontana l’aveva messa un solitario anarchico di nome Pietro Valpreda...

Con la solita elegante bava alla bocca, il quotidiano Libero dedica un servizio alla giudice titolato: “La zitella rossa che licenzia 11mila operai”.

Il ministro Passera effettua un sopralluogo a Taranto insieme al ministro all’Ambiente (?) Clini. “Se chiude l’Ilva, chi fornirà l’acciaio all’economia italiana?” domanda preoccupato Clini, senza alcun cenno alla situazione ambientale e sanitaria che evidentemente non lo riguarda. Oltre a rifornire di acciaio l’economia italiana, il proprietario dell’Ilva, Riva, ha anche rifornito di lauti finanziamenti (tutti legali) la politica italiana, da destra a sinistra.
Da Passera ci si aspetterebbe a questo punto un segnale, una visione di politica industriale fondata su una prospettiva diversa di sviluppo, meno dipendente dalle produzioni ad alto impatto ambientale. E il ministro Passera ancora una volta non delude: “Taglieremo i finanziamenti per le energie rinnovabili e semplificheremo le procedure per avviare nuove trivellazioni nel suolo e nel mare italiano alla ricerca petrolio e gas”: cassa integrazione nel settore della green economy, agevolazioni alle compagnie petrolifere per le perforazioni in terra e in mare. Stupefacente.
L’unico statista rimasto in circolazione ha le sembianze del segretario della Fiom, Maurizio Landini: “Le leggi vanno applicate. Per produrre, l’Ilva deve mettersi in regola. Io penso che la magistratura abbia colmato un vuoto lasciato dalla politica e anche dal sindacato”.